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Violenza di genere. Un decalogo per i giornalisti per evitare di usare le “parole sbagliate”


Messo a punto in occasione della tappa fiorentina del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale. L’elenco delle parole “proibite” è uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i media ma anche l’opinione pubblica ad affrontare il tema in maniera opportuna.

25 FEB - Le parole possono aiutare le donne a liberarsi da una gabbia, denunciando violenze e sopraffazioni; possono contribuire a cambiare azioni e atteggiamenti delle nuove generazioni; possono cambiare lo sguardo degli uomini sulle donne. Ma sbagliare il linguaggio può provocare danni gravissimi, contribuendo a rafforzare pregiudizi e stereotipi e causando un dolore supplementare e inutile alle vittime.
 
In un Paese in cui lo scorso anno i casi di femminicidio sono stati 69, dove sono già 5 le donne uccise dall’inizio del 2019 e dove ben 7 milioni sono vittime di violenze, trovare le parole giuste può fare la differenza e la responsabilità dei media per la formazione, oltre che per l’informazione dei cittadini, è enorme: ogni singola parola, ogni singola immagine può dare la voce a migliaia di donne o spegnerla.
 
Per aumentare la consapevolezza del problema e aiutare gli specialisti dell’informazione a trovare sempre le parole giuste, è stato messo a punto un decalogo di parole e stereotipi sbagliati quando si racconta la violenza di genere. Nato in occasione della tappa fiorentina del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale, l’elenco delle parole proibite è uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i media ma anche l’opinione pubblica ad affrontare il tema in maniera opportuna.
 
In Italia nel 2018 sono state uccise 69 donne, 7 milioni quelle che pur non avendo perso la vita sono state picchiate, maltrattate o violentate. Dal 2000 a oggi si è consumata una strage con 3100 vittime: 108 in Toscana dal 2006 al 2017 e oltre 22mila  donne, in media 6 al giorno, che si sono rivolte ai centri Antiviolenza secondo i dati dell’Osservatorio Sociale Regionale.
 
“Trovare le parole giuste per trattare un tema tanto delicato, che rispettino le donne e non le colpevolizzino, è indispensabile – interviene Danila Pescina, psicoterapeuta e criminologa – Tra le parole più sbagliate e purtroppo più comuni, raptus e follia: nessun femminicidio avviene all’ improvviso ma è l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo. Una violenza iniziata molto tempo prima: magari prima solo psicologica, pericolosissima perché inizia a far vacillare lo status psichico ed emotivo della vittima, poi il primo schiaffo, fino ad arrivare agli agghiaccianti casi di cronaca di cui sentiamo parlare ormai troppo spesso. Altrettanto inaccettabile anche la parola “follia”, perché regala un alibi emotivo al carnefice e fa pensare che chi compie questi delitti sia una persona con disturbi psichici, ma ormai sappiamo bene che non è sempre così. È certamente importante parlare della “dipendenza affettiva” che sta alla base di molte di queste relazioni violente, invece dell’uso improprio del termine “amore malato”.
 
“La lettura morbosa dei fatti finisce per minimizzare un reato che in Italia colpisce 7 milioni di donne – sottolinea Vittoria Doretti, Direttore Uoc Promozione ed Etica della Salute e Responsabile della Rete Regionale Codice Rosa della Regione Toscana – dettagli scabrosi che non aggiungono nulla alla cronaca spostano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vittima, anziché sulla ferocia dell’aggressore. Dobbiamo evitare di accendere i riflettori in modo distorto: soffermarsi su ‘come era vestita la vittima’ di una violenza o descrivere in dettaglio le ferite subite è come sottoporre le donne a una seconda violenza. Descrivere ciò che la donna ha fatto o non fatto, detto o non detto sulla base di dettagli scabrosi o violenti, può trasformare l’opinione pubblica in un tribunale in cui le donne si sentono giudicate e violate. Le parole vanno soppesate con estrema delicatezza, pur nel rispetto del diritto di cronaca, perché la lettura inappropriata dei fatti può avere conseguenze serie sulle vittime, come descritto dall’articolo 10 del Manifesto di Venezia – continua Doretti – Riportare il racconto di parenti, amici, vicini di casa, che lui “era un ragazzo d’oro” o “un bravo ragazzo” è come sminuire la versione della vittima, come dubitare che sia possibile quanto è successo; dire che lei “se l’è cercata” significa colpevolizzare la donna e dare un perché a gesti che non possono essere in alcun modo giustificati, ledendo la libertà di ogni donna di vivere a suo modo”.
 
Altrettanto scorretto dire che “lei lo tradiva” perché il tradimento non può essere in alcun modo letto come un alibi, considerando la donna un oggetto di proprietà maschile. È  una frase da bollino rosso anche chiedersi “perché lei non lo ha lasciato?”: le dinamiche dei rapporti non possono mai essere semplificate e, spesso, nascondono ricatti, sudditanza psicologica, difficoltà economiche che non consentono di andarsene soprattutto se ci sono figli di mezzo.
 
“Le parole possono far seguire alla violenza, che segna per sempre, una violenza psicologica che non si rimargina di cui l’autore non è più il partner – osserva Alessandra Kustermann, Direttore Uoc del pronto soccorso Ostetrico-ginecologico e del Soccorso Violenza Sessuale e Domestica del Policlinico di Milano – Usare le parole giuste fa sì che l’opinione pubblica percepisca il fenomeno per come è davvero. Lo straniero solo raramente è l’aggressore, quando i media sottolineano l’etnia dell’aggressore, invece che la violenza inaccettabile che è stata subita dalla donna, spostano l’attenzione sulla diversità anziché sull’omogeneità dei comportamenti. Il problema non è legato alla cultura del singolo autore ma a una pericolosa concezione dei rapporti di forza tra uomini e donne: mariti e compagni sono nel 70% dei casi gli autori della violenza. La violenza di genere ci riguarda ed è trasversale a tutte le culture, le classi sociali, le etnie e le religioni. È una forma di razzismo contro le donne che accomuna e non divide”.
 
“Raccontare i fatti con le parole giuste è indispensabile per combattere le violenze –  commenta Valeria Speroni Cardi, Direttore Comunicazione Gruppo Menarini – da questa riflessione è nato l’impegno di Menarini a sostegno di corsi che promuovano una maggiore consapevolezza in chi ha il compito difficile ma prezioso di informare e far sì che la società civile non abbassi mai la guardia sulla violenza di genere. Questa tappa fiorentina è particolarmente importante per noi perché è l’occasione per presentare il risultato di tanti incontri che siamo orgogliosi di sostenere. Il nostro impegno prosegue anche con il progetto per la lotta all’abuso sui minori, già avviato tre anni fa, su tutto il territorio nazionale per creare una rete di pediatri “salva-bimbi”.
 
Il decalogo delle parole e degli stereotipi sbagliati quando si parla di violenza sulle donne
Raptus: nessun femminicidio avviene mai all’improvviso, è sempre l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo
 
Follia: usare questa parola è un modo per regalare un alibi emotivo al carnefice e fa pensare che chi compie questi delitti sia una persona con disturbi psichici.
 
Amore malato: questa espressione è un ossimoro, l’amore è il contrario della violenza, che non può mai essere descritta come l’esito di una passione amorosa.
 
Descrivere come era vestita la vittima: lascia passare l’idea che ci sia una giustificazione possibile per gli atti violenti, umiliando la donna e la sua libertà di scelta.
 
Descrivere in dettaglio le ferite subite: è un atteggiamento morboso e voyeuristico che provoca soltanto dolore nella vittima, senza aggiungere nulla a ciò che l’opinione pubblica può conoscere dei fatti.
 
Era un bravo ragazzo (un padre premuroso, un uomo buono etc): è come sminuire la versione dei fatti della vittima, come dubitare che sia possibile quanto è successo.
 
Se l’è cercata: significa colpevolizzare la donna e dare un perché a gesti che non possono essere in alcun modo giustificati.
 
Lei lo tradiva: è un dettaglio privato che crea un alibi che colpevolizza la donna.
 
Perché’ lei non lo ha lasciato? Andarsene per le donne non è mai semplice e i motivi possono andare dal ricatto economico, alla presenza dei figli, alla paura di essere giudicate dall’esterno.
 
Dare più spazio ai delitti che coinvolgono stranieri: distorce dalla realtà che vede come autori delle violenze, mariti, compagni, o familiari stretti in oltre il 70% dei casi.

25 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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