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Il suicidio e la responsabilità professionale dello psichiatra

di Massimo Biondi

Si è diffusa la convinzione che il suicidio sia espressione sistematica di malattia mentale e che, come per molte malattie, sia prevenibile con mezzi idonei. Purtroppo queste convinzioni hanno condotto e conducono a giudizi di responsabilità professionale per gli psichiatri, che non sono fondati su dati scientifici

28 OTT - Il suicidio è divenuto una delle principali ragioni di procedimenti di responsabilità professionale per gli psichiatri. Si è diffusa la convinzione che il suicidio sia espressione sistematica di malattia mentale e che, come per molte malattie, sia prevenibile con mezzi idonei.
 
Non vi sono, invece, dati di ricerca che consentano di affermare l’identificazione di variabili certe o clinicamente valide per identificare il rischio di suicidio, anche in persone che hanno già compiuto un tentativo di suicidio.
 
Purtroppo queste convinzioni hanno condotto e conducono a giudizi di responsabilità professionale per gli psichiatri, che non sono fondati su dati scientifici, ma su esigenze sociali legate ai sentimenti di frustrazione e impotenza che si sviluppano dopo un suicidio e alla spinta a risarcire in qualche modo la famiglia della vittima di suicidio.
 
Il suicidio è un fenomeno troppo complesso per poter essere riportato a una causalità al di là di ogni ragionevole certezza come, invece, richiesto dal Diritto Penale, né può essere affrontato con una progressiva perdita di libertà da parte dei pazienti.
 
Nel mese di Ottobre 2018, lo psichiatra statunitense Robert J. Ursano ha pubblicato uno studio dal quale emerge che più di un terzo dei militari con una storia di tentato suicidio non presentava precedenti sintomi psichiatrici. Lo studio “di coorte” (riguardante una specifica popolazione, in questo caso quella dei militari), di tipo longitudinale, ha analizzato un ampio campione per cinque anni (dal 2004 al 2009).
 
È opportuno sottolineare che esistono studi, come quello di E. Giampieri et al. del 2013, che mostrano che le percentuali di suicidi nei diversi ambiti militari corrispondono sostanzialmente a quelle della popolazione generale.
 
Questi risultati meritano un approfondimento in quanto aprono ragionamenti a 360 gradi: clinici, deontologici, sociali e medico legali.
 
Per cominciare, ci sono almeno due possibilità interpretative:
- una prima è che vi siano disturbi non diagnosticati (undetected) che precedono il suicidio. Questa è la tesi che sposa il Prof. Ursano come unica possibilità, frutto, a mio parere, di un ragionamento capzioso. Lo studio non ipotizza che anche una persona del tutto 'normale' - extrapsichiatrica - possa suicidarsi;
-  un'alternativa solida è che una parte dei suicidi non dipenda realmente da disturbi psichiatrici e questo studio lo dimostra in modo lampante.
 
Attualmente, per ragioni culturali e politiche complesse, il suicidio è sempre più considerato come espressione di un disturbo psichiatrico e, in quanto tale, fenomeno prevenibile, diagnosticabile e curabile. Ciò è in linea con una tendenza del mondo contemporaneo a rimuovere la morte, come già osservato da Freud: «Inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte […]. In verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte».
 
Perciò, il porre volontariamente fine alla propria vita deve essere patologizzato dal senso comune come espressione inequivocabile di malattia. Nel ricondurlo alla malattia, possiamo quindi applicare le categorie mediche del trattamento e della prevenzione.
 
Nella pratica clinica, invece, il suicidio è uno dei comportamenti più difficilmente prevedibili, anche perché, come già detto, non necessariamente espressione di un disturbo psichiatrico. Già nel 1897 Durkheim suddivideva i suicidi in “patologici”, di competenza psichiatrica, e “normali”, dovuti a una alterata integrazione del soggetto nell’ambiente di vita.
 
L’attenzione verso il suicidio come causa di morte è cresciuta progressivamente e conseguentemente burocratizzata dal sistema sanitario. In ambito ospedaliero, il tentato suicidio (TS) è qualificato come “evento sentinella” e la prevenzione del suicidio del paziente ospedalizzato è divenuto uno dei punti centrali organizzativi del rischio clinico in sanità.
 
Sono pertanto previste e richieste direttive e procedure per evitarlo che sono applicate tutte le volte che ci si trovi di fronte a questa situazione clinica. L’evento morte, tuttavia, può verificarsi nonostante l’attuazione delle procedure di protezione o avvenire il giorno dopo la dimissione convertendosi, quasi automaticamente, in una procedura giuridica di valutazione della responsabilità professionale dei clinici curanti che, comunque, qualsiasi cosa abbiano fatto, secondo i legali della vittima, non avrebbero fatto quanto invece dovuto per evitarlo.
 
Quest'impostazione, chiedo provocatoriamente, è forse il frutto di un senso di onnipotenza degli psichiatri? C’è la ricerca di maggiore influenza, potere, ruolo attraverso l'esistenza di malattie che pretendono di riconoscere, prevenire e curare? Finendo poi vittima del magistrato, perché non le hanno riconosciute, diagnosticate, prevenute e curate? E dei familiari che non sono stati capaci di capire, prevenire, intervenire, chiedere aiuto per la sofferenza di un congiunto e si rimproverano e colpevolizzano?
 
A mio giudizio è un grande errore. Così si genera un'informazione distorta e una mentalità per cui la responsabilità prima è degli psichiatri che non riconoscono e non intervengono come e quando si deve, con l'idea sottintesa che siano onnipotenti.
 
Una delle migliori trattazioni recenti sul tema del suicidio si apre esemplarmente con il capitolo “Suicide Risk: Assessing the Unpredictable (Rischio di suicidio: valutare l’imprevedibile). Nel testo di Robert I. Simon, pubblicato sul Psychiatric Times, è onestamente e coraggiosamente scelto il termine “imprevedibile” in tema di valutazione del rischio di suicidio.
 
Nel 2017, inoltre, Franklin JC et al. hanno effettuato una revisione sistematica (più unica che rara) su 365 studi nell’arco di 50 anni, dalla quale, in estrema sintesi, risulta che la possibilità di prevedere un suicidio ha le stesse probabilità dell’affidarsi al caso.
 
Un studio dell’Istat del 2017, curiosamente poco considerato, riporta che solo il 13% dei suicidi risulta associato a patologie mentali.
 

 
La domanda che nessuno o pochi si pongono è se esista un suicidio razionale, se esista una libertà di suicidarsi (a parte paesi come Olanda e Svizzera che hanno ammesso una procedura regolamentata in particolari condizioni), come sia diversa la posizione di varie culture (in alcuni casi è un atto dovuto, d'onore) e perché debba partire quasi in automatico l'accertamento della responsabilità di medici e curanti di fronte a un evento con eziopatogenesi multisfaccettata, sfuggente, ambigua e con tante chiavi di lettura.
 
Uno dei pochissimi a porsi la scomoda domanda è Luigi Pavan, Professore di Psichiatria dell’Università di Padova in pensione, nel suo libro Esiste il suicidio razionale?: “Alla domanda iniziale se esiste il suicidio razionale, cioè non determinato da patologie psichiche, riteniamo sia possibile rispondere positivamente, da un punto di vista psichiatrico...”
 
È poco sensato dunque cercare in un singolo evento la causa di un suicidio (depressione, perdita del lavoro, divorzio ecc...), trattandosi nella maggior parte dei casi di una concomitanza di fattori precipitanti, che a volte si sommano anche nelle vite di persone che non si suicidano. A tal proposito vale la pena di sottolineare la responsabilità dei media nel dare notizie dei suicidi e dell’effetto Werther, un contagio emotivo che avviene verso soggetti con strutture psichiche più fragili.
 
Dal punto di vista medico-legale, comunque, non è agevolmente determinabile una causalità singola che possa essere attribuita con certezza a una condotta omissiva di un sanitario, almeno sotto il profilo penale, e in linea di massima andrebbe esclusa.
 
Prevedibilità ed evitabilità risultano perciò un obiettivo cui tendere con determinazione, competenza, impegno, professionalità ma, come l’esperienza personale di molti psichiatri
clinicamente esperti testimonia, allo stato attuale si tratta di un obiettivo arduo, lontano, non possibile: «Ogni psichiatra ha il suo cimitero personale, grande o piccolo che sia», ci ricordava tempo addietro Luigi Frighi in una lezione universitaria.
 
Stabilire questi principi è importante almeno per tre aspetti:
1. l’effettivo riconoscimento di imprevedibilità del fenomeno;
2. lenire il dolore indicibile di chi, avuto un congiunto suicida, si tormenta al pensiero che avrebbe potuto prevenirlo e se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo;
3. sostenere l’angoscia del clinico curante che, purtroppo, poco ha potuto e la cui responsabilità professionale va grandemente ridimensionata alla luce di quanto stiamo discutendo.
 
Massimo Biondi
Ordinario di Psichiatria dell’Università La Sapienza e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale del Policlinico Umberto I
 
 
A cura di Paola Porciello
 
 
Per approfondire:
Risk factors for suicidal thoughts and behaviors: A meta-analysis of 50 years of research.
 
“Esiste il suicidio razionale?” di Luigi Pavan (Magi Edizioni, 2009)
 
In suicidio nell’esercito e nelle forze armate (Il suicidio oggi, 2013)
 
Sull’imprevedibilità del suicidio (Rivista di Psichiatria, 2016)

28 ottobre 2018
© Riproduzione riservata

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