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Infermieri. Ecco perché non mi convince la prima stesura del nuovo Codice Deontologico

di Luca Benci

Il testo ha avuto una trasformazione genetica e si mostra molto meno “prescrittivo” delle versioni precedenti. E’ una scelta, insieme a quelle sul linguaggio  e sulla decisione di non trattare più una serie di tematiche che ho ripercorso, che stupisce. Nel suo “dimagrimento” ci sono ampi spazi che decide di non coprire, facendo venire meno la funzione di “guida” all’esercizio professionale che la straordinaria previsione della legge 42/99 gli assegna

04 MAR - La prima stesura del codice deontologico (d’ora in poi Codice) della Federazione Ipasvi è stata presentata nel novembre del 2016. Mi attendevo un dibattito pubblico – visto che pubblicamente è stato presentato – che avrebbe potuto chiarire e approfondire alcuni punti di novità che non avevo ben compreso. Non sembra che il dibattito pubblico sia stato vivace – quanto meno non ho trovato contributi pubblicati – e apprendo che è stata avviata una consultazione interna tra gli iscritti Ipasvi.
 
La professione infermieristica rappresenta una delle due importanti professioni del mondo sanitario e la presentazione di un atto importante come il codice deontologico rappresenta un momento degno di essere commentato.
 
Intervengo per portare il mio contributo su alcuni aspetti del Codice presentato.
Tralascerò tutto ciò che ho trovato positivo nella prima stesura concentrandomi su quanto, a parere mio, necessita di miglioramento e cambiamento.
 
Intervengo sugli aspetti legati:
1.  alla “partizione del codice”;
2.  al linguaggio generalmente utilizzato;
3  alla scomparsa delle norme antidiscriminazione;
4. la “funzione assistenziale” e l’esercizio professionale;
5. alla “clausola di coscienza”;
6. il consenso informato;
7. al “fine vita”;
8. alla scomparsa della norma sulla contenzione;
9. alla scomparsa dell’articolo sulla “compensazione”.
 
1. La “partizione” del Codice
Un codice deontologico è un atto normativo a tutti gli effetti e, come è noto, è richiamato dalla legge 42/99 come criterio-guida per l’esercizio professionale. E’ quindi parte strettamente integrante dell’esercizio professionale. Come tale deve avere una sua assoluta leggibilità,  facilità di consultazione e citazione.
 
Per motivi che non sono chiari le varie stesure dei codici deontologici IPASVI non hanno mai seguito le usuali regole per la “partizione” – termine tecnico che altro non significa che “suddivisione” dell’atto normativo – del codice deontologico.  
 
Gli atti normativi si suddividono, minimamente, in articoli che costituiscono “l’unità base” dell’atto stesso. Gli articoli hanno in genere una “rubrica” che ne permette una più agevole consultazione. A sua volta l’articolo si suddivide in “commi” contrassegnati con numeri cardinali progressivi seguiti da un punto (ad es. 1. 2. 3.  ecc.). Per gli atti normativi  più complessi si prevede anche la suddivisione in Capi e in Titoli, sempre rubricati. A titolo esemplificativo riporto una legge che riguarda la professione infermieristica, la Legge 1 febbraio 2006, n. 43  “Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l'istituzione dei relativi ordini professionali”. La legge 43 è suddivisa solo in articoli e in commi. Gli articoli sono opportunamente rubricati:
 
art. 1
(Definizione);

art. 2
(Requisiti);

art. 3
(Istituzioni degli ordini delle professioni sanitarie);

art. 4
(Delega la Governo per l’istituzione degli ordini ed albi professionali);

art. 5
(Individuazioni di nuove professioni in ambito sanitario);

art. 6
(Istituzione della funzione di coordinamento);

art. 7
(Disposizioni finali).

 
In modo immediato si individuano i vari articoli e, attraverso la rubricazione, il loro contenuto.
La partizione delle varie versioni dei codici deontologici della Federazione Ipasvi non ha mai seguito questo schema. Nella versione del 1999 la partizione era decisamente anomala. Si trovavano dei “Capi” rubricati, non chiamati come tali, seguiti da articoli (?) numerati in modo talmente difforme dalla normalità che era difficile anche citarli. Es. art. 1.2, 1.3, 1.4. laddove le declinazioni dell’articolo 1 non si comprendeva se fossero commi o altro. Comunque non erano indicati neanche come articoli.
 
Nel Codice versione 2009 si è arrivati a una numerazione ordinaria classica, con la suddivisione in capi e articoli, senza però alcuna rubricazione, rendendo difficoltosa la lettura e, soprattutto la ricerca degli articoli.
 
Nel Codice – prima stesura 2016 – la suddivisione è in Capi, questa volta finalmente rubricati (es: capo I – I Principi e i valori) ma non si comprende se i numeri a seguire siano articoli o meno (non c’è scritto!). Comunque non rubricati.
 
Queste notazioni di mera redazione di atti normativi servono per sostenere che una stesura formale e eseguita a regola d’arte rende più fruibile, consultabile e citabile il Codice stesso. Un Codice ben presentato normativamente ne guadagna anche in autorevolezza come un codice di una grande e organizzata professione merita.
Si auspica quindi un intervento in tal senso.
 
2. Il linguaggio utilizzato
Un codice deontologico per essere sentito proprio dalla comunità professionale, per esser un riferimento anche per le altre comunità professionali e, ultimo ma non ultimo, per il cittadino, dovrebbe utilizzare un linguaggio proprio del dibattito deontologico, giuridico e dell’operatività quotidiana. A titolo esemplificativo noto che mancano espressioni comuni come consenso informato, evidenza scientifica, linee guida, dichiarazioni o disposizioni anticipate di trattamento, buone pratiche, contenzione, accanimento terapeutico, sedazione terminale ecc.
 
Il richiamo del codice deontologico come una delle condizioni di guida dell’esercizio professionale è un fatto di enorme importanza e riguarda solo le professioni sanitarie. Non è mai accaduto che lo Stato subordini l’applicazione di una legge anche a norme deontologiche. Lo ha fatto solo con la legge 42 del 1999. I codici deontologici non devono contenere generiche norme etiche, ma norme deontologiche con lo spirito che la legge gli assegna.
 
Il linguaggio non è neutro: indica con nettezza l’argomento di cui si parla e in cui si riconosce la comunità professionale nel rapporto all’interno del proprio mondo, con la restante comunità interprofessionale e nel rapporto con i soggetti destinatari della prestazione professionale.
 
Quando l’operatività quotidiana e il dibattito deontologico generale parlano lingue diverse da uno specifico codice deontologico sono destinati a non incontrarsi. Ne va della fruibilità del codice stesso.
 
L’esempio paradigmatico, oltre a quelli citati, è contenuto nell’articolo 1 e 2 laddove si opera un richiamo a un non meglio precisato “ideale di servizio”. Ho provato a cercare, a chiedere a informarmi e non sono riuscito a trovare una definizione e una bibliografia a supporto.
 
Sicuramente per mia incapacità. Suppongo che vi sia da qualche parte una definizione e un approfondimento. Certamente non appartiene come linguaggio e come concetto all’usuale dibattito deontologico. Non lo ritroviamo in nessun codice di alcuna professione ivi compreso quello attuale dell’infermiere.
 
Dato il valore prescrittivo che deve avere una norma deontologica si introduce un concetto indeterminato e non facilmente conoscibile, che non appartiene al linguaggio usuale del mondo professionale.
 
I maestri del diritto romano avevano coniato il famoso brocardo In claris non fit interpretatio (la chiarezza non necessita di interpretazione), preoccupandosi che il testo fosse già comprensibile, senza dover fare riferimento a elementi extra-testuali, come in realtà diventa necessario fare con l’ideale di servizio.
 
Le interpretazioni poi rischiano di divergere e di creare confusione. Una volta approvato un testo normativo “vive” di vita propria e laddove non chiaro – come nel caso in questione – si consegna all’interpretazione soggettiva.
Sicuramente è da riconsiderare l’innovazione apportata.
 
3. La scomparsa delle norme antidiscriminazione
In ogni codice deontologico delle professioni della salute sono contenute norme antidiscriminazione. L’articolo 7 del codice vigente è il classico articolo antidiscriminazione.
 
Lo riporto testualmente:
Articolo 7 - L'infermiere presta assistenza secondo equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché dell’etnia, del genere e delle condizioni sociali della persona.
 
Trovo questo articolo decisamente felice, ben scritto e che contempera tutti gli aspetti che sono oggi oggetto di discriminazione. Ho avuto modo di notare anni fa – mi si perdoni l’autocitazione  (da Aspetti giuridici della professione infermieristica, VI edizione, 2011, p 296)-  che l’articolo 7 veniva “riformulato e impreziosito” dal  riferimento all’agire professionale da svolgersi secondo “equità e giustizia”. “Anche le norme antidiscriminazione in senso stretto si sono arricchite del riferimento al “genere” che ha sostituito il riferimento al “sesso” dell’individuo che appariva ormai del tutto superato dalla pluralità di opzioni legate agli orientamenti sessuali che, di fatto, superano lo stretto dato biologico-anatomico”.
 
Anche in questo caso, in assoluta controtendenza, la prima stesura del Codice Ipasvi si allontana dal dibattito e dal sentire comune. Decide di cancellare le norme antidiscriminazione anziché arricchirle, come aveva fatto in passato,  e inspiegabilmente le cancella.
 
Si poteva, ad esempio, estendere la discriminazione, oltre che al genere, all’orientamento sessuale. Sarebbe stato perfettamente in linea con il legislatore che nel 2016 ha riconosciuto, per la prima volta nel nostro Paese, diritti a chi ne era sprovvisto, proprio in relazione a questo aspetto. Mi riferisco alla recente legge sulle Unioni civili che seppur lontana parente di legislazioni estere più avanzate – quelle sul matrimonio egualitario – si pone, anche, come un argine antidiscriminazione.
 
Stesso rilievo può essere fatto sulla discriminazione su base etnica. Norme che erano presenti anche nei codici più antichi – quando l’immigrazione era ancora da venire – spariscono proprio quando gli infermieri quotidianamente si devono prendere carico della popolazione migrante.
 
4. La “funzione assistenziale” e l’esercizio professionale
Alla fine del mese di febbraio la Camera ha approvato, in via definitiva, la “legge Gelli” in tema di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale. All’articolo 5 si stabilisce che ogni “esercente la professione sanitaria” deve attenersi alle “raccomandazioni previste dalle linee guida” e alle “buone pratiche clinico assistenziali” che saranno pubblicate sul sito web dell’Istituto superiore di sanità e che saranno redatte dalle società scientifiche e dalle “associazioni tecnico-scientifiche” delle professioni sanitarie.
 
Linee guida e buone pratiche, dunque, come base per l’esercizio professionale a cui anche l’infermiere si deve “attenere” e redatte anche da associazioni tecnico-scientifiche infermieristiche.
Come nei casi precedenti, anche in questo caso, il Codice prima stesura decide di non utilizzare il linguaggio corrente e il linguaggio di legge.
L’innovazione della legge Gelli è profonda e contiene al proprio interno ampi spazi di autonomia che potranno essere presenti nelle linee guida pubblicate.
Il fatto che le diciture “linee guida” e “buone pratiche” non compaiano mai nel Codice prima stesura è  incomprensibile.
 
5. La clausola di coscienza
In questi mesi vi sono forti discussioni sul problema dell’applicazione della legge sull’aborto e sul suo articolo 9 che riconosce l’obiezione di coscienza a una parte della procedura abortiva.
 
L’obiezione di coscienza si sostanzia in una possibilità da parte del professionista di non adempiere ad attività altrimenti dovute. Vi sono altre norme che riguardano la sperimentazione animale e la fecondazione medicalmente assistita che riguardano l’obiezione di coscienza.
 
Norme di legge, dunque, che permettono di astenersi da procedure previste dalla stessa legge.
La comparsa della “clausola di coscienza” è invece enigmatica. Non è prevista dalla legge ed è solo il tentativo di estendere un’obiezione non riconosciuta dalla legge.
 
E’ stato il codice di deontologia medica del 1998 a istituirla e nel 2004 è stata richiamata dal Comitato nazionale di Bioetica che l’ha ipotizzata per tentare di estendere ai medici l’obiezione di coscienza alla contraccezione di emergenza (pillola del giorno dopo).
 
Essendo contraccezione e non interruzione di gravidanza non si poteva e non si può applicare l’obiezione di coscienza vera e propria prevista dalla legge. Per altro, il Comitato nazionale di bioetica non è riuscito neanche a definirla. Cosa sia la clausola di coscienza, quali siano i suoi ambiti e perimetri, è rimasto, dunque, un mistero.
 
La “prima stesura” del Codice Ipasvi non colma questa lacuna, ma prevede la clausola di coscienza in due casi:
a) nel caso in cui la persona assistita chieda “attività” in contrasto con i principi, i valori e la deontologia infermieristica (art. 6);
b) nel caso in cui l’organizzazione chieda o pianifichi attività assistenziali, gestionali o formative in contrasto con i propri principi e valori e/o con le norme della professione (art. 33).
 
La clausola di coscienza può essere quindi sollevata sia nei confronti di richieste che provengono dai pazienti che da richieste che provengano dall’organizzazione. Il richiamo a qualcosa di profondamente indeterminato come la clausola di coscienza, operato in ben due articoli del Codice ancorandolo genericamente a “principi e valori” che sono a loro volta non facilmente determinabili e declinabili (come il già citato “Ideale di servizio”) rischia di esporre l’infermiere stesso a procedimenti disciplinari per il rifiuto delle attività svolte oltre che a disservizi reali che può determinare.
 
Nel momento in cui i procedimenti disciplinari vengono utilizzati anche per motivi diversi dalle inadempienze – vedi il caso di Ancona – e nel momento in cui sono in via di approvazione le parti applicative della “legge Madia” che prevede il deciso inasprimento delle procedure e delle sanzioni disciplinari, è utile domandarsi se gli estensori della “prima stesura” del Codice abbiano tenuto conto dei rischi che può correre un infermiere che sollevi la “clausola”.
 
In rete si trova un unico esempio legato alla applicazione della clausola di coscienza dovuto alla terapia Stamina. La somministrazione della terapia Stamina riguarda una prescrizione illegittima di un prodotto galenico non sottoposto a sperimentazione e spacciato per quello che non era: una terapia compassionevole. E’ la legge che determina i requisiti della terapia compassionevole e una prescrizione non conforme a legge non deve essere eseguita appunto perché illegittima.
 
La clausola di coscienza rappresenta il massimo dell’autoreferenzialità e il minimo della deontologia: mette al centro il professionista e subordina l’effettuazione delle prestazioni sanitarie alla sensibilità etica del professionista stesso con un’aggravante rispetto all’obiezione di coscienza: quest’ultima è determinata dalla volontà della collettività (la legge dello Stato), mentre la clausola è il frutto ristretto della decisione del mondo professionale.
 
6. Il consenso informato
E’ la tematica per eccellenza di questi ultimi decenni. Ha messo al centro il paziente e ha definito una “nuova categoria generale costitutiva della persona” (Rodotà, 2012).
 
L’espressione “consenso informato” non compare mai nel Codice, mentre compare la parola informazione. La parola consenso mai.
A parer mio è un errore soprattutto in quanto nella pratica quotidiana l’espressione è utilizzatissima e in Parlamento è in discussione un progetto di legge che vorrebbe regolamentare proprio la materia del “consenso informato”.
 
Il Codice Ipasvi non ha mai utilizzato questa espressione e continua a non utilizzarla. L’espressione in realtà non è certo esente da critiche (antepone illogicamente consenso a informazione), ma, che piaccia o no, è l’espressione principe utilizzata da tutti: professionisti, pazienti, mezzi di comunicazione, magistrati ecc.
 
Non utilizzarla rende difficoltosa l’applicazione dei suoi fondamentali principi tenendo conto delle zone grigie dell’applicazione che riguardano sia l’informazione – talvolta carente – sia il consenso con le sue burocratiche modalità di rilevazione.
 
Da un’esperienza personale – accompagnamento di un parente a una visita anestesiologica pre-ricovero – ho notato la prassi estremamente amministrativa dell’atto di acquisizione del consenso. Il mio parente è stato accolto da un’infermiera che gli ha prospettato, come primo adempimento, non la visita medica, bensì la firma sul modulo del consenso, degradando il consenso informato a mera attività amministrativa e degradando se stessa ad ausiliaria del medico. Una deriva nota che deve essere evitata.
 
Il codice di deontologia medica è intervenuto sul punto definendo l’acquisizione del consenso un “atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile”. Una norma similare non si ritrova nel Codice Ipasvi che pure dovrebbe combattere questo deprecabile fenomeno.
 
Provo allora a proporre un articolo che, a parer mio, dovrebbe essere presente nel codice deontologico dell’infermiere.
Art...
L’informazione alla persona assistita e l’acquisizione del consenso
L’infermiere concorre nell’informazione alla persona assistita con gli altri professionisti dell’equipe in modo consapevole e coordinato.
L’infermiere rispetta le contrarie volontà della persona a non essere curata e assistita e riconosce nel principio dell’autodeterminazione informata un valore etico insopprimibile nel suo rapporto con la persona.
Si oppone alle prassi burocratiche e alle mere cooperazioni amministrative del consenso informato dettate da motivi di medicina difensiva e si adopera, presso l’istituzione presso cui opera, per il loro superamento.
Acquisisce il consenso in forma scritta, previa adeguata informazione, solo per gli atti di propria competenza.
 
La materia del consenso informato e il ruolo dell’infermiere sono situazioni troppo importanti per non essere esplicitamente previste dal Codice deontologico.
 
7. Il fine vita
Il Codice dedica tre soli articoli sul “fine vita”. Nel codice attuale sono cinque. Anche in questo caso non compaiono le espressioni tipiche del fine vita: testamento biologico, disposizioni (o dichiarazioni o direttive) anticipate di trattamento, accanimento terapeutico, eutanasia. Non compare mai neanche la parola “autodeterminazione”.
 
In queste settimane tutti discutono del caso del “Dj Fabo” e della sua morte da “migrante di diritti”.  Il linguaggio è uniformato su queste espressioni.
 
Sono mancanze che pesano. Tutto il dibattito sulle tematiche del fine vita è racchiuso nelle tre righe in cui si compone l’articolo 27. Proprio nel momento in cui tutta la società si sta interrogando sulle scelte di fine vita il Codice Ipasvi – prima stesura - rinuncia all’approfondimento e alla indicazione ai professionisti.
E’ una parte largamente insufficiente e da integrare.
 
8. La scomparsa della norma sulla contenzione
La contenzione fisica dei pazienti è una pratica, da sempre, al limite della legittimità costituzionale e penale, e da molto tempo se ne auspica una, al momento improbabile, scomparsa.
Al momento quello che è scomparso è l’articolo del codice deontologico Ipasvi.
 
Devo dire che avevo trovato coraggiosa la posizione della Federazione Ipasvi quando nel 1999 aveva introdotto, prima fra tutti, la norma sulla contenzione. A fronte di pratiche quotidiane si  era preso atto con un articolo che trovai decisamente equilibrato.
 
Art. 4.10
L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione fisica e farmacologica sia evento straordinario e motivato, e non metodica abituale di accudimento. Considera la contenzione una scelta condivisibile quando vi si configuri l’interesse della persona e inaccettabile quando sia una implicita risposta alle necessità istituzionali.

 
Nel 2009 l’articolo fu peggiorato. Venne tolta la parte etica e rimase una parte strettamente prescrittiva andando a individuare un competenza infermieristica nella prescrizione sulla contenzione.
Articolo 30
L'infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali.

 
Scompare la terminologia nella normazione codicistica 2016 (prima stesura), se ne recupera, indirettamente, una sorta di regolazione con il nuovo articolo 32 – continuo a chiamarli articoli sperando di non sbagliare - che riporto:
 
32. L’infermiere pone in essere quanto necessario per proteggere la persona assistita da eventi accidentali e/o dannosi, mantenendo inalterata la di lei libertà e dignità.
 
L’articolo si mostra criptico e contraddittorio: da una lato invita l’infermiere a proteggere il paziente da “eventi accidentali e/o dannosi” dall’altro si propone di mantenerne la libertà.
La contenzione viene definita come un particolare atto sanitario-assistenziale, come recita il materiale che è presente sul sito della Federazione Ipasvi, laddove si riconosce che in taluni casi l’utilizzo della contenzione può essere efficace come, ad esempio, quando il paziente “tende a strappare i presidi salvavita”.
 
Nella stesura che stiamo commentando si danno indicazioni di mettere in atto “quanto necessario” per proteggere la persona – e abbiamo visto che può essere anche la contenzione - ma “mantenendo la di lei libertà”. La contenzione è per definizione contrazione della libertà.
 
Scompare il termine ma non scomparirà la pratica contenitiva. Scompare solo dal Codice Ipasvi. Rimane nel codice di deontologia medica (art. 32 u.c.),  nel codice deontologico del fisioterapista, nei documenti del Comitato nazionale di Bioetica.
 
In particolare il codice di deontologia medica (Fnomceo, 2014) stabilisce che:
Il medico prescrive e attua misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali nei soli casi e per la durata connessi a documentate necessità cliniche, nel rispetto n dignità e della sicurezza della persona”.
 
La contenzione, nella pratica quotidiana, rischia di essere un “atto medico prescrittivo” che gli infermieri applicheranno. Scompare infatti anche il riferimento ad applicare la contenzione “dietro documentate valutazioni assistenziali” e quindi infermieristiche.
Il tutto avviene a pochissimi mesi dal più grande processo sulla contenzione (c.d. “caso Mastrogiovanni) che ha portato ben 11 infermieri – oltre a diversi medici - alla condanna per sequestro di persona per avere attuato una contenzione “prescritta” dai medici.
 
9. La scomparsa della compensazione
Scompare il contestato articolo 49 sulla compensazione da operarsi in caso di carenze della struttura. Articolo di natura aziendalistica difficilmente compatibile con la natura di un codice deontologico. La sua scomparsa è decisamente positiva e pone fine alle polemiche che hanno, da sempre, accompagnato la sua introduzione e la sua vigenza.
 
Conclusioni
Il Codice Ipasvi – prima stesura – ha avuto una trasformazione genetica e si mostra molto meno “prescrittivo” delle versioni precedenti. E’ una scelta – insieme a quelle sul linguaggio  e sulla decisione di non trattare più una serie di tematiche che ho ripercorso – che stupisce.
 
Nel suo “dimagrimento” ci sono ampi spazi che decide di non coprire, facendo venire meno la funzione di “guida” all’esercizio professionale che la straordinaria previsione della legge 42/99 gli assegna.
 
Decidendo questa trasformazione il Codice rischia di consegnarsi all’irrilevanza con la conseguenza che alcune materie avranno, come unico riferimento altri codici (come il codice di deontologia medica sulla contenzione).
 
Per evitare questo pericolo il Codice – prima stesura 2016 – abbisogna di un deciso ripensamento.
 
Luca Benci
Giurista

04 marzo 2017
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