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Il nuovo Codice deontologico dei medici. Tra  “paziente e assistito” si è perso il malato

di Ivan Cavicchi

Il problema di come definire il malato, non è banalmente nominalistico perché chiama in causa i rapporti complessi tra semanticadeontologia e realtà. Mi spiego meglio con una domanda: i significati che il codice attribuisce al malato, nelle sue varie denominazioni, sono pertinenti nei confronti del malato reale? (seconda parte)

29 MAG - Una questione che ha fatto discutere è stata come definire il malato, ”paziente” e “persona”. Il lessico del codice, a questo proposito, è vario con alterni significati di base e alterni significati contestuali, ma il significato  medio che prevale  è  “assistito”. Nel codice questo termine è ripetutamente usato sia come sostantivo che come attributo. Si tratta di un vecchio concetto di malato e che oggi è stato radicalmente rivisitato dalle teorie del nursing e che rientra negli ambiti concettuali e operativi delle scienze infermieristiche.
 
Ma a parte ciò, il problema di come definire il malato, non è banalmente nominalistico perché chiama in causa i rapporti complessi tra semantica, deontologia e realtà. Mi spiego meglio con una domanda: i significati che il codice attribuisce al malato, nelle sue varie denominazioni, sono pertinenti nei confronti del malato reale? Premetto che a mio parere, come ho detto tante volte, la “questione medica” si spiega principalmente oltre che, con l’ingresso sulla scena del limite economico, anche con quella di una figura culturalmente e socialmente nuova di malato, il famoso  “esigente”.
 
Entrambi i fenomeni, anche se in modo diverso, condizionano  l’autonomia professionale del medico e interagendo hanno un effetto finale spiazzante. L’esigente, è una metafora di ciò che è “altro” dal paziente, e per il medico costituisce un problema  perché è:
· un rilevante cambiamento  antropologico, sociale e politico della sua “controparte di ruolo” che si emancipa dal suo vecchio status di “beneficiario” e che chiede al medico di essere un altro genere di medico,
· un rilevante cambiamento ontologico della sua  premessa cognitiva dalla quale prende forma il ragionamento clinico e che chiede al clinico di essere un altro genere di clinico.
 
In sintesi: un codice deontologico per essere pertinente non può ignorare ciò che chiede il malato. E qui cominciano i dolori.
Il codice perseguendo solo uno scopo di aggiornamento e non di riforma e quindi escludendo dai suoi explananda la ridefinizione culturale di malato si preclude qualsiasi possibilità di essere pertinente. Il suo paradosso è che il malato nuovo, indipendentemente da come chiamarlo, non è tra gli explananda che definiscono la deontologia. Il codice quindi  è come se ignorasse i cambiamenti che riguardano il malato, limitandosi a chiamare il malato “assistito” e dedicandogli in questo senso pochi articoli (titolo 4)... nulla di più.
 
Al contrario, il malato, se non altro perché gli ordini nascono storicamente per la tutela dei cittadini, non può che essere il primo explanandum di un moderno codice deontologico, per almeno due ragioni:
· perché rappresenta il bisogno, la domanda e quindi il fine della medicina,
· perché come ontologia egli è la premessa di qualsiasi cognizione, atto, comportamento, del medico.
 
Se la premessa  è quella “dell’assistito”, quindi un classico paziente in “carne ed ossa” cioè con una ontologia bio-clinico-organicista, è inutile chiamarlo persona, come è inutile parlare di relazioni, di umanizzazione, di personalizzazione, di centralità del malato....perché la cognizione clinica prima e gli atti clinici poi, saranno dedotti tutti da questa premessa.. e tutto si ridurrà ad una sciatta e banale amabilità paternalistica. Purtroppo il codice si riferisce ad un malato che non c’è più per cui esso è visibilmente non pertinente.
 
Ma c’è un altro aspetto che stranamente è sfuggito ai commentatori e che a mio parere invece è molto significativo proprio perché conferma il discorso appena fatto: il codice non si limita a ribadire il vecchio concetto di “assistito” ma estende questo concetto costruendo una figura per certi versi inedita di “assistito assistito” cioè di un soggetto  sottointeso perché “assistito” da un “rappresentante legale”. Questa figura di “assistente legale dell’assistito” non è completamente nuova, essa era già presente nel codice del 2006 ma in quel caso richiamata per questioni strettamente legali, quali la sfiducia, il consenso relativo a minori e incapaci, il trattamento dei dati (articoli 12,28,37). Con il nuovo codice  il “rappresentante legale” dell’assistito ne prende addirittura il posto, chiamato in causa  su questioni di informazione, comunicazione, consenso, dissenso, rappresentanza (titolo 4) ma anche su questioni che attengono le procedure diagnostiche e gli interventi terapeutici (art. 16), il rapporto fiduciario (art. 28), i doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili (art. 32).
 
Il codice così mostra di accettare in pieno la logica della medicina difensiva, altrimenti detta della “resilienza” (capacità dei metalli di resistere agli urti), rinunciando all’unica cosa sensata che si potrebbe fare che è quella non solo di attrezzarsi legalmente per “resistere” al contenzioso legale, ma anche  di costruire una nuova relazione culturale con il malato e quindi con la società per prevenire il contenzioso legale. La conseguenza di questo scivolone è che l’unico articolo dedicato alla relazione di cura (art. 20) è, riferendosi all’assistito, indiscutibilmente regressivo. Il codice, chiama “relazione”, quella che da secoli è una “giustapposizione” tra ruoli diversi, del medico e  del paziente, nella quale si parla di libertà di scelta, di condivisioni ma in modo ”contro stante” cioè nelle “rispettive autonomie e responsabilità”. Il codice inoltre parla di “alleanza di cura” ignorando che ormai la “reciproca fiducia” in molti medici e molti cittadini non c’è più e che il “mutuo rispetto” è stato scalzato ormai diffusamente con il contenzioso legale.
 
E poi la chicca finale, a dimostrarci quanto poco chiaro sia per il codice il significato di relazione: “il tempo della comunicazione” cioè il tempo per informare il malato “è tempo di cura” cioè oltre il tempo della cura c’è un tempo per informare sulla cura. In un vera relazione di cura il malato e il medico sono inter-relati, sussistendo tra loro un rapporto di implicazione stretta, per cui non esiste un tempo per curare e un tempo per informare, esiste una relazione che “informa” in tutti i sensi l’intero processo di cura. In una società che si fonda sulle relazioni, le interconnessioni, le reti, i net work con un malato-esigente fortemente relazionale (empowerment)  il codice ripropone sostanzialmente una medicina , senza relazioni con la società, cioè ,giustapposta  e contro stante. L’unica relazione che il codice definisce con il malato è quella legale.
 
(Fine seconda parte, terza e ultima parte sabato 31 maggio. Leggi la prima parte)
 
Ivan Cavicchi

29 maggio 2014
© Riproduzione riservata

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