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Piccoli ospedali. Una riforma possibile. Ma discutiamo sul “come” e sul “perché”

di Fabio Florianello

Non si può che condividere l’esigenza di una riforma. Ma nell’approccio fin qui manifestato il metodo sembra mirato non tanto all’esigenza di modificare l’offerta assistenziale e renderla più appropriata e coerente ai bisogni della comunità, bensì al consueto taglio dei posti letto

06 SET - La volontà espressa dal Ministro Lorenzin  di “riconversione dei piccoli ospedali” non può che trovare l’unanime accordo di tutti gli addetti ai lavori. Da tempo, infatti, componente medica ed infermieristica denunciano che,  al di là dei requisiti, delle capacità e delle esperienze  professionali,  non si può prescindere dai fattori strutturali, tecnologici ed organizzativi, nell’erogazione di  prestazioni sanitarie appropriate e sicure per le persone da assistere e per gli stessi operatori.
 
Estremamente pertinente è tuttavia la domanda posta al Ministro dal Vice Segretario Anaao, Mario Lavecchia, che dalle colonne di questo giornale chiede se non sia “illusorio” riorganizzare la sanità italiana, in particolare  riconvertire  i piccoli ospedali,  senza i medici  e le altre professionalità del mondo sanitario.
Il   problema dei piccoli ospedali, su cui avevo già avanzato qualche considerazione  (Quotidiano Sanità 17 maggio u.s.), è tuttora irrisolto e rischia di essere affrontato senza quei  criteri  che solo la partecipazione della componente tecnica può dare e  senza quella  visione globale la cui carenza  ha innescato profonde contrapposizioni tra popolazioni locali, amministrazioni regionali e aziendali che fin qui ne hanno frenato la risoluzione. E quali siano i criteri che “ridisegnano la sanità in Italia” non è dato di sapere.
 
E’ utile ricordare che nell’aprile  1988  con la  Legge n. 109 l’allora Ministro Donat Cattin disponeva  una  “complessa manovra di riequilibrio dei posti letto nel territorio nazionale”  che prevedeva la soppressione dei presidi con meno di 120 posti letto  che avrebbe  interessato  257 istituti,  per un totale di 18.443 posti letto da disattivare o riconvertire.  
Fin da allora, infatti,  alcune strutture erano prive dei requisiti per fornire prestazioni specialistiche ed  investirvi risorse sarebbe stato inutile, ancorchè dannoso.  
 
E la situazione risulta oggi  peggiorata perché molte strutture hanno subìto negli anni un abbandono sotto i più diversi profili: della struttura edilizia, del personale, della tecnologia, della manutenzione,  riconducibili alla razionalizzazione della spesa (in realtà veri e propri tagli !) secondo criteri e  modalità di stampo  per lo  più  economicistico,  con le risorse disponibili  (o non disponibili) a condizionare  il destino di un piccolo ospedale.  Mentre l’approccio  dovrebbe  essere quello  di  una rimodulazione dell’offerta e l’individuazione delle funzioni da affidare a  determinare  l’adeguatezza delle risorse per il mantenimento delle competenze.  Ciò che permetterebbe  davvero di ridisegnare la rete delle competenze con una  migliore attribuzione,  gestione ed erogazione  di risorse e sicurezza nella tutela della salute. 
 
Nel 1988 il criterio indicato, dunque,  era stato quello dei Posti Letto. Oggi la  Legge 135/2012  indica lo “standard dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del servizio sanitario regionale ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille abitanti per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie”, prevedendo così un ulteriore ridimensionamento di posti letto e conseguentemente di strutture ospedaliere.
 
In pratica sembra riproporsi lo stesso criterio a distanza di venticinque anni. E il metodo  non è affidato all’esigenza di modificare l’offerta assistenziale e renderla più appropriata e coerente ai bisogni della comunità, bensì al consueto taglio dei posti letto per contenere la  spesa sanitaria con  un’operazione centrale che costringe alla chiusura mediante la restrizione o negazione di risorse. E tale restrizione o negazione di risorse comporta dei problemi di sicurezza  per gli utenti, ma anche per gli operatori sanitari, Medici e Personale di Assistenza, addossando loro la responsabilità di esporsi ai rischi continuando ad effettuare prestazioni o di proporre la chiusura di strutture e servizi. Passando così per imprudenti e negligenti nel primo caso o per degli incapaci di gestire nel secondo.
 
Spetterebbe invece  alla decisione nazionale e programmazione regionale garantire il rispetto dell’erogazione dei LEA, dell’equità, della qualità e della sicurezza delle cure.  E lo strumento è la “rete”, ossia un insieme dei diversi presidi ospedalieri che con le loro caratteristiche  dovrebbero  dare risposte alla domanda sanitaria in modo coordinato, con funzioni assistenziali specialistiche  diversificate, tenuto conto anche degli  ambiti territoriali di riferimento.  Quindi, una volta definito il ruolo che ogni ospedale deve assumere nell’organizzazione della rete, dovrebbero essere  assicurate le risorse strutturali,  professionali e tecnologiche indispensabili per poter assolvere alle funzioni attribuite. E davvero si verrebbe a realizzerebbe un’efficace spending review.
 
Al contrario (ribadisco quanto già scritto in precedenza) emerge una non dichiarata condanna a morte per asfissia di ospedali, contro la cui esecuzione spesso si mobilitano le popolazioni e le istituzioni locali a partire dai Comuni. Venendo ad innescare un braccio di ferro il cui risultato dipende in gran parte dal livello di forza politica degli attori in campo e dagli  interessi elettorali.
 
Ma con difficoltà si procederà alla riforma se non si provvederà a cambiare metodo. Se non si provvederà a tracciare un profilo sanitario della popolazione di quell’ambito territoriale, a disegnarne i fattori epidemiologici, la mappa dei rischi, l’età anagrafica, i bisogni di salute dei residenti, i flussi di accesso alle strutture residenziali o quelli di migrazione. 
In altre parole a tener conto del numero e delle caratteristiche anagrafiche degli abitanti di un determinato bacino d’utenza, del profilo epidemiologico della  popolazione, degli ospedali e unità operative specialistiche  presenti nel territorio e dei servizi d’emergenza-urgenza, delle competenze professionali consolidate  del personale medico e infermieristico, della tecnologia presente, dei flussi di prestazioni verso l’interno del territorio e verso l’esterno, delle infrastrutture territoriali.
 
E magari considerare anche la Struttura dal punto di vista edilizio, visto il rapporto della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale e la denuncia della Corte dei Conti sui quasi 10 miliardi stanziati per l’edilizia ospedaliera mai  spesi dalle Regioni. E a discutere con gli addetti ai lavori i risultati di una tale analisi e condividerne le proposte relative.
Sarebbero così una serie di criteri socio-epidemiologici e tecnici ed un confronto con medici e professioni sanitarie a realizzare il processo di riconversione/chiusura dei piccoli ospedali. Con maggiore correttezza di informazioni alla pubblica opinione e più facile potere di convincimento a rinunciare  alla struttura sanitaria sotto-casa.  
 
Meno comprensibile e meno accettabile, invece, qualora emerga il fondato sospetto di un criterio esclusivamente economico, presentato sotto il  poco convincente profilo della ottimizzazione e razionalizzazione delle prestazioni. Anche perché l’esperienza ha da tempo dimostrato che il criterio puramente economico in sanità comporta sempre e solo l’esposizione a gravi rischi per la tutela della salute.  
 
Fabio Florianello
Segretario Amministrativo Anaao Assomed, Regione Lombardia

06 settembre 2013
© Riproduzione riservata

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