Benato (Fnomceo): “Sei medici su cento under 40 si possono definirte disoccupati”
25 GIU - Il 6,20 % dei medici con meno di quarant’anni si possono definire disoccupati o, meglio, “gettonisti”: il loro contratto di lavoro è atipico e con soluzione di continuità tra un impiego e l’altro. Il contratto atipico è quasi consuetudine nelle fasce d’età tra i 25 e 33 anni, sia per il settore pubblico sia privato, mentre per una stabilizzazione bisogna aspettare di avere tra 33 e 40 anni.
È questo lo scenario emerso, nella mattinata di oggi, dalla relazione che il vicepresidente
Maurizio Benato, in rappresentanza della Fnomceo, ha tenuto nell’ambito del Convegno “Mercato del lavoro e previdenza: nuovi strumenti di previsione e programmazione”, organizzato dall’Osservatorio del mercato del lavoro delle professioni sanitarie dell’Enpam.
“I dati della ricerca condotta dall’Anaao, aggiornati al 7 giugno scorso, dimostrano come non vi sia, tra i medici, un adeguato ricambio generazionale” è stato il commento di Benato.
Avremo, dunque, una classe medica sempre più anziana? E quali sono le altre questioni che – dalla “femminilizzazione” del Ssn, alle equipe multiprofessionali - piloteranno il mercato del lavoro in sanità?
Dottor Benato, nel convegno di oggi si è fatto riferimento ai tre strumenti necessari per favorire una politica previdenziale: allungare, mantenere e rafforzare la capacità reddituale del medico. Quali interventi possono essere attuati, per ottenere tali obiettivi in un contesto di “precarietà globale” come quello che stiamo vivendo, e che coinvolge anche i Sistemi Sanitari?
La Fnomceo ha da tempo un Osservatorio professionale aperto sul mondo del lavoro del medico, con particolare riferimento alle Scuole di Medicina, al Fabbisogno medico e specialistico, alle difficoltà che i giovani incontrano nell’accesso alla Professione e all’ambiente di lavoro. Ingresso nel lavoro che, almeno nel senso in cui lo intendevano le scorse generazioni, con un posto a tempo indeterminato, è oggi sempre più difficile. Osserviamo invece la proliferazione di una vasta gamma di tipologie di lavoro che possiamo genericamente definire "atipiche", in contrapposizione al prototipo normativo del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La maggioranza di questi lavoratori atipici (57,4%) sono impiegati nel settore Pubblico, e sono concentrati – per il 30,36% - nella fascia d’età tra i 25 e i 33 anni. Sopra i quarant’anni, invece, solo l’1,82% dei medici è assunto con un contratto atipico a tempo determinato, percentuale che sale al 13,41% per i lavori flessibili ma a tempo indeterminato. I contratti atipici sono più diffusi al Nord (sono il 26,68%), seguono il Centro (12,43%), il Sud (8,36), mentre le più “virtuose” sono le Isole, con una percentuale del 2,25%.
Con quali conseguenze per i giovani?
In sostanza, dopo le accurate ricerche effettuate, il risultato è sconcertante. L’Italia è l’unico Paese Europeo in cui, nel contesto delle tipologie di lavoro atipico, non sono assicurati e salvaguardati i diritti fondamentali del lavoratore, sanciti dallo Statuto dei lavoratori del 1970.
Ferie, maternità, malattia, diritti sindacali, e ancora straordinari e contributi pensionistici decorosi, per non parlare delle possibilità di carriera, non sono infatti neppure menzionati nelle tipologie di lavoro maggiormente utilizzate in ambito sanitario, quali il contratto a tempo determinato e i Co.Co. Pro., nonché i contratti a Partita Iva, quelli dei cosiddetti medici “gettonisti”.
Occorre perciò trovare immediate soluzioni nella contrattazione prossima ventura, per facilitare il superamento della precarietà e aticipicità contrattuale nella dipendenza, oltre a ridurre i tempi di formazione specialistica di un anno per tutte le specialità. Anche perché questa incertezza dovuta alla precarietà accompagna il medico anche dopo il periodo di formazione post lauream, che può arrivare sino a dieci anni, con i conseguenti ritardi nella stabilizzazione della situazione personale e familiare e con un gap rispetto alle altre realtà europee difficilmente colmabile, non solo in termini anagrafici, ma soprattutto in termini di acquisizione delle competenze professionali e previdenziali.
Del rapporto tra offerta e domanda di lavoro occorre - secondo i criteri previsti dalla Legge (D.lgs n° 502 del 2002) - tenere conto anche nella rilevazione dei fabbisogni formativi. D’altra parte, periodicamente si rinnova l’allarme sulla possibile futura carenza di alcuni specialisti. Come fronteggiare la situazione, senza creare una pletora di disoccupati?
Occorre, in realtà, una rivisitazione dell’intero impianto formativo, in particolare quello specialistico, alla luce del numero dei contratti di formazione che ammontano a 5500 tra offerta pubblica nazionale e regionale. Questo significa riprogrammare i settori nei quali sono già presenti carenze, sottraendo contratti a quelli nei quali, al contrario, l’offerta formativa appare eccessiva. Occorre inoltre rivedere il sistema formativo nel suo impianto generale, attraverso l’integrazione della formazione accademica con quella sul campo.
Vuole dire che già oggi ci sono carenze in alcune branche specialistiche?
Guardi, in alcune zone d’Italia, soprattutto al Nord, ci sono concorsi pubblici per determinate figure specialistiche che vanno deserti. In altri concorsi, ad esempio quelli di accesso alla Medicina Interna, la metà dei medici non posseggono la relativa specialità, ma specializzazioni in discipline equipollenti.
L’accesso alle Scuole di specializzazione va calcolato sul fabbisogno reale del Sistema sanitario: si rischia altrimenti di formare specialisti che non servono o che non andranno ad esercitare la specializzazione per cui hanno conseguito il titolo per mancanza di effettivi sbocchi.
E per quanto riguarda invece l’accesso alla Facoltà di Medicina?
Vale lo stesso discorso. In generale, la programmazione sanitaria del nostro paese non può prescindere da una valutazione appropriata e corretta del fabbisogno delle diverse figure presenti nella filiera della cura.
I criteri adottati nella determinazione dei posti tengono conto di esigenze composite: di quelle espresse dalle Regioni, seguendo il puro criterio anagrafico e calcolando le presunte quiescenze nei diversi settori professionali; dalle Università, sulla base delle disponibilità logistiche e formative legate alle figure dei docenti; dal Ministero della salute, che ha come criterio gli obiettivi sanitari nazionali.
Difettano invece le analisi del contesto in cui si collocheranno i nuovi medici. Bisogna inoltre considerare la situazione creata dalla grave crisi economica, che mette in forte dubbio la sostenibilità del servizio sanitario e che ha un impatto rilevante sulle decisioni di vita e professionali dei medici attualmente occupati. Si potrebbe dunque assistere a un cambiamento nella “gobba pensionistica”, con una “corsa al pensionamento” – tra quest’anno e l’inizio del prossimo - di una coorte di cinquantamila medici nati tra il 1947 e il 1952 e poi il forte rallentamento delle uscite per le classi a seguire, probabilmente sino alla metà degli anni ’20.
Gli scenari in cui si muovono i nuovi medici sono sempre più “multiprofessionali” e, anche secondo recenti dati del ministero della Salute, sempre più “rosa”, per la femminilizzazione delle Professioni sanitarie. Con quali ricadute?
È vero: l’erogazione delle cure e dell’assistenza non fa più perno sul singolo medico ma è basata su una “divisione” del lavoro, in cui si intersecano competenze diverse. Si tratta di una organizzazione multi-professionale, in cui aree di intervento tradizionalmente occupate dai medici vengono gestite nel contesto di un “governo clinico”, che richiede a sua volta regole virtuose di cooperazione nel rispetto delle competenze .
L’attuale professionista medico dovrà avere sempre maggiori capacità di modificare i propri comportamenti di lavoro, adottando modelli basati sulla reale partecipazione di tutto il variegato mondo delle professioni sanitarie. Sarà portato inoltre a pianificare il proprio futuro, per essere in grado di gestire un ambiente ad elevata intensità di lavoro ed altissimo livello di scolarizzazione; dovrà altresì dotarsi di un bagaglio culturale nel quale non possono non essere presenti conoscenze di tecniche di gestione assai complesse, che non hanno eguali in altri settori.
La Professione medica, dunque, travolta anche dalla nuova identità professionale di genere femminile, che impone urgenti risposte sia sul piano clinico che organizzativo, deve, a sua volta, adeguarsi alla cultura di servizio attaulmente richiesta per la sanità pubblica.
Particolare attenzione va posta alle donne medico: gli orientamenti in questo senso appaiono ancora sfumati nella programmazione sanitaria e completamente assenti nei progetti sindacali, che non hanno ancora assimilato il concetto di genere per superare l’ottica prevalentemente maschile presente nei contratti di lavoro.
Simona Dainotto
25 giugno 2013
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