Coronavirus e responsabilità professionale. Serve una norma che “metta in sicurezza” operatori e Asl da richieste di risarcimenti e conflitti giurisdizionali
La valutazione di eventuai contenziosi derivanti dall'attività sanitaria svolta in piena emergenza per far fronte all'epidemia non può essere riservata al singolo giudice. Occorre un intervento normativo di sbarramento sotto il profilo della responsabilità delle strutture sanitarie e degli operatori. E’ questo, più che mai, il tempo della responsabilità, di tutti e di ciascuno. Una responsabilità intesa come missione e non come rimedio
10 MAR - Tutto il SSN sta facendo uno sforzo straordinario a tutela della salute pubblica, per curare i pazienti affetti da Covid 19 e cercare di bloccare la diffusione di un virus che, ormai, sembra aver superato qualunque link epidemiologico locale ed e’ ad alta contagiosità.
In pochi giorni, sia il Governo che la Protezione civile che le Regioni hanno emanato decine di provvedimenti di organizzazione sanitaria, spesso contingibili ed urgenti, per cercare di gestire l’emergenza. Dal 25 gennaio si sono susseguite ordinanze, circolari e decreti del Ministero della Salute e del Ministero degli Interni, ordinanze del Ministero della Salute d’intesa con i Presidenti delle Regioni piu’ a rischio, DPCM, tre decreti legge, ordinanze del Capo Dipartimento di Protezione Civile, decreti, ordinanze, circolari delle Regioni, tutti aventi ad oggetto l’emergenza Coronavirus.
Da ultimo il DPCM del 10 marzo, destinato a segnare in modo epocale la nostra storia, richiamando il paese a responsabilità sociali e collettive tanto inderogabili, da imporre la restrizione alla circolazione su tutto il territorio nazionale.
La numerosità e la frequenza dei provvedimenti emanati è indice della gravità di una situazione che ormai l’Oms definisce emergenziale a livello mondiale e che si evolve rapidamente dal punto di vista epidemiologico.
Le criticità che le strutture sanitarie si trovano ad affrontare sono sostanzialmente di quattro tipi:
• Criticità strutturali: c’è necessità di imponenti mutamenti organizzativi in tempi molto rapidi per creare ulteriori posti letto, rispetto a quelli disponibili. In questa situazione, l’unico modo di tutelare la salute pubblica, per consentire cambiamenti repentini degli attuali assetti logistici ed assistenziali, è applicare:
1) deroghe rispetto alle vigenti norme in materia di accreditamenti strutturali e di dotazioni organiche;
2) deroghe rispetto alla normativa in materia di acquisti;
3) deroghe in materia di reclutamento di personale e di requisiti professionali, nonche’ di vincoli in materia di orario di lavoro;
• Nozione di caso sospetto inizialmente legato al link epidemiologico. Altro aspetto critico si e’ determinato per il rapido mutamento del quadro, per cui inizialmente la ricerca dei casi sospetti sintomatici era legata al link epidemiologico dichiarato dal paziente. Tale legame è poi stato superato da una serie di provvedimenti, l’ultimo dei quali del 9 marzo, che ha ridefinito la nozione di caso sospetto, ma, intanto, le procedure precedenti sono state collegate a dati che, anche per la sola dimenticanza del paziente nel dichiarare un link geografico, possono aver allargato il rischio infettivo da contatto.
• Protezione del personale sanitario con DPI. Tutti gli operatori a rischio sono stati protetti ma una protezione integrale, di tipo cautelativo, anche oltre l’effettivo rischio potenziale, per tutti coloro che operano in ospedale è incompatibile con la disponibilità, sul mercato, di materiale a sufficienza. Trattasi di una epidemia dislocata in varie aree mondiali, di incerta durata, con difficoltà ad individuare un fabbisogno certo di DPI da programmare nel tempo, senza una reale certezza sui tempi e modalità di approvvigionamento, che per ora è garantito anche grazie ad un intervento massivo del Dipartimento della protezione civile.
• Personale esperto. In molti luoghi il personale e’ malato o confinato. Nuove assunzioni non sempre possono garantire la presenza di operatori con la necessaria expertise.
Sul potenziamento delle risorse umane del SSN, sul potenziamento delle reti assistenziali, sugli incentivi per la produzione di dispositivi medici e misure di semplificazione per l’acquisto, è intervenuto, con disposizioni in deroga rispetto alla normativa vigente, il decreto legge 9 marzo 2020 n.14. In tutto 18 articoli con norme specifiche per l'arruolamento di medici e personale sanitario, con assunzioni di specializzandi e incarichi di lavoro autonomo e a tempo determinato nel Ssn e richiamo di medici e infermieri in pensione, assunzione di medici sprovvisti di specializzazione, reclutamento di medici di medicina generale e pediatri, incremento delle ore di specialistica ambulatoriale.
La Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) in un documento recentemente diffuso (dal titolo: “
Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”) ha affermato che, a fronte dell’attuale epidemia e delle previsioni che “
stimano per le prossime settimane, in molti centri, un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta (con necessità di ricovero in Terapia Intensiva) di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”, potrebbe “
rendersi necessario porre un limite di età all'ingresso in TI; e non si tratterebbe di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”.
E comunque, in uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di “
first come, first served” equivarrebbe di fatto ad operare una drammatica selezione e scegliere di non curare gli ultimi arrivati, che rimarrebbero esclusi dalla Terapia Intensiva.
Questa, in estrema e semplificata sintesi la situazione. Inutile dire cosa significhi per una struttura creare nuovi percorsi soprattutto intensivi, spostare attività, riconvertire rapidamente il personale. Per usare un gergo giuridico tale situazione situazione potrebbe definirsi come Stato di necessità, organizzativa e clinica.
In questo quadro, drammatico ed emergenziale, si deve guardare ai medici, a tutti gli operatori della sanità, impegnati allo stremo, come a rinnovate luci del nuovo millennio, a coloro i quali, impegnati in prima linea, mettono in gioco le loro stesse vite, e le risorse di cui dispongono, per provare ad arginare un fenomeno tanto infido quanto restio a rivelare le esatte coordinate di sé.
Volendo per un attimo cambiare il filtro visivo, e volgerci al futuro con una qualche speranza, possiamo spingere il cuore oltre l’ostacolo, nell’auspicio che l’emergenza sia capace di risvegliare le coscienze, anche al di là della contingenza di questa grave crisi, riportando il concetto sacro di “salute” entro un perimetro meno egoistico, sviluppato non solo lungo le direttrici di tutele e diritti assoluti, ma anche di doveri inderogabili di cooperazione e mutuo e reciproco sostegno.
Ed è in questa prospettiva che il naturale senso di oppressione che abita in molti, anche a seguito delle recentissime misure costrittive, dovrebbe lasciar posto a quella maturità che nel terzo millennio è lecito attendersi e che antepone l’impegno del “noi” alla logica dell’”io”. In questo momento di difficoltà e di crisi si pone, dunque, l’esigenza di nutrire il seme di una rinnovata alleanza terapeutica, di cui si sono perse da troppo tempo le tracce, cancellate da un paradosso: quello della messa in stato di accusa di coloro i quali, anziché attaccati, dovrebbero invece esser sostenuti, nella loro nobile attività di cura.
In questo senso, la lezione della Legge 24/2017 (cd legge Gelli), rivela adesso una attualità disarmante, nella sua dichiarata intenzione di spostare il baricentro dal concetto inquisitorio di responsabilità sanitaria, che divide e ci schiera in fazioni, a quello solidale di sanità responsabile, che al contrario dovrebbe unirci.
Di fronte a tali premesse ideali, disorienta l’intempestività con la quale risulterebbero esser state avviate, da alcune Procure, indagini tese a comprendere se taluni decessi o se, peggio, la propagazione di taluni focolai possano essere ascritti a responsabilità omissive delle strutture che hanno accolto i primi pazienti colpiti dal contagio.
In questi momenti di drammatica crisi, tutto ciò di cui non si sente davvero il bisogno è proprio la possibile ripresa di scenari accusatori, o la caccia ai responsabili tra coloro i quali - medici, operatori della sanità, direzioni strategiche – sono oggi ridotti allo stremo pur di provare ad arginare un fenomeno di portata epocale.
Riteniamo, pertanto, che vi siano alcuni elementi che, in punto di diritto, meritino di esser valorizzati per evitare che la battaglia al Covid 19 sia intralciata da improvvidi (almeno allo stato) ostacoli conflittuali.
E’ il concetto stesso di emergenza, mai come adesso invocabile, a marcare la “differenza”. Come ben descritto dalla Cassazione (sentenza del 10.06.2014 n. 24528), la colpa professionale del medico deve valutarsi tenendo conto della qualifica ricoperta dal professionista, delle specializzazioni ricoperte dallo stesso e del grado di difficoltà e urgenza di cui debba occuparsi.
Il rimprovero personale che fonda la colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente soggettivo, richiede di ponderare le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi nonchè di considerare che le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o sotto una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate.
Da questo punto di vista, ha concluso la Suprema Corte, l'art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell'ordine stesso delle cose. In breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell'esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell'intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto.
Recuperare la forza dell’art. 2236 c.c., lungi dal prestare il fianco a facili deresponsabilizzazioni, sancisce il punto di equilibrio tra la regola di responsabilità e la necessità di consentire al professionista di affrontare con coraggio, e senza timori, le sfide connesse agli incarichi più difficili, e perciò stesso forieri di rischi di insuccesso.
E se ciò vale per tutto quel che attiene ai problemi correlati alle difficoltà di intercettazione dei casi patologici, altre riflessioni meritano di esser svolte di fronte alla probabile esplosione di richieste risarcitorie relative a contagi (asseritamente) contratti proprio all’interno del nosocomio.
In tema di infezioni nosocomiali, è noto che la giurisprudenza si è mossa, tradizionalmente, in un’ottica di tutela del paziente ed ha fatto ampio ricorso, ai fini della prova del nesso causale, a presunzioni che si pongono al confine di una responsabilità oggettiva e senza colpa, anche se, dopo la legge 24/2017, si è registrato un graduale ripudio di tale modello “oggettivo”, consentendo ai fini liberatori, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno infettivo (attraverso la attuazione di specifici protocolli diretti all’applicazione, al monitoraggio, all’aggiornamento e verifica delle pratiche a ciò finalizzate).
Nel caso del Covid 19, peraltro, l’infezione è a matrice prevalentemente non ospedaliera, avendo carattere esogeno. Ed il controllo di ogni singolo gesto altrui, in molte situazioni, risulta chimerico e neppur lontanamente richiedibile a chi, con risorse limitate, si trova addirittura, in alcuni contesti, a dover fare i conti con la selezione dei pazienti, per capire chi poter direttamente accogliere.
In questo momento è dovere della collettività tutelare i nostri eroi e il nostro SSN da possibili attacchi, sotto il profilo della responsabilità professionale sanitaria. Sarebbe terribile se, dopo questa trincea, qualche operatore o responsabile sanitario si vedesse indagato per responsabilità penale o se le casse del SSN, che, senza badare a spese sta cercando, con orgoglio e grandissima professionalità, di fronteggiare la situazione, dovessero far fronte a risarcimenti o gestire una fase di conflitti giurisdizionali in tale ambito.
E la valutazione non può essere riservata al singolo giudice. Riteniamo occorra un intervento normativo di sbarramento sotto il profilo della responsabilità delle strutture sanitarie e degli operatori. E’ questo, più che mai, il tempo della responsabilità, di tutti e di ciascuno. Una responsabilità intesa come missione e non come rimedio.
Se si vuol trarre insegnamento da questi momenti drammatici, si deve dunque sperare che il futuro si ammanti di rinnovate consapevolezze e che dalla fragilità nasca una coesione, che sarà bello chiamare la “nuova” alleanza terapeutica.
Tiziana Frittelli
Presidente di Federsanità
Avv. Maurizio Hazan
Studio legale Taurini & Hazan
10 marzo 2020
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