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Palermo. Sbagliano dosi farmaco antitumorale e la paziente muore. Medici e infermieri condannati in primo grado con pene da 4 a 7 anni

di Luca Benci

Tutto nasce da un errore di trascrizione che ha portato a somministrare 90 anziché 9 mg di un antitumorale. Non vi sono stati meccanismi tali da impedire l’errore in tutta la filiera di cura. La paziente aveva 34 anni ed era affetta da linfoma di Hodgkin. Ma la durezza della pena, che è andata ben oltre alle richieste della pubblica accusa, impone una riflessione proprio sull’entità della pena stessa che si assume come “esemplare”

15 DIC - Il fatto risale al 2011 ed è accaduto al  Policlinico Giaccone di Palermo e ha coinvolto un’intera equipe di cura: medici strutturati, medici specializzandi, infermiere addetti alla preparazione degli antiblastici, infermiere somministrante e, financo, uno studente di medicina. Tutta la vicenda è ruotata intorno a un errore di trascrizione che ha portato a somministrare 90 anziché 9 mg di Vinblastina.
 
Non vi sono stati meccanismi tali da impedire l’errore in tutta la filiera di cura che ha quindi portato a morte una giovane donna affetta da linfoma di Hodgkin. L’organizzazione  è risultata totalmente estranea alla vicenda processuale pur rilevando gravissime lacune che hanno contribuito a causare l’evento.
 
Proprio in seguito a questa vicenda il Ministero della Salute ha emanato nel 2012 la Raccomandazione n. 14 denominata “Prevenzione degli errori in terapia con farmaci antineoplastici”.

Mi riservo di commentare adeguatamente tutta la vicenda quando usciranno – entro novanta giorni – le motivazioni della sentenza di primo grado emessa ieri a Palermo e informo che essendo stato consulente di uno degli imputati posso osservare la vicenda con un certo conflitto di interessi.
 
In questa sede non posso non rilevare però le “condanne record” che verosimilmente non hanno eguali nella storia della responsabilità professionale sanitaria. Cinque anni ai medici specializzandi (più due anni per falso ideologico per uno di loro), quattro anni e sei mesi al “titolare della struttura semplice” (unico medico strutturato coinvolto) e quattro anni alle due infermiere, più pesanti condanne accessorie di interdizione alla professione per tutti i professionisti coinvolti (per un numero di anni pari alla condanna). Assoluzione per lo studente di medicina.
 
Da un punto di vista civilistico anche un risarcimento danni che sfiora i due milioni di euro.

Quello che mi preme commentare sono i titoli di alcuni giornali che riportano i commenti di soddisfazione dei parenti che parlano di “condanna esemplare”. I parenti delle vittime delle attività sanitarie hanno tutte le ragioni per esprimere giudizi, anche pesanti, sull’operato dei professionisti sanitari e dell’organizzazione. Una riflessione comunque si impone.

Chi scrive è sempre stato critico sui provvedimenti legislativi che hanno in parte depenalizzato l’attività degli “esercenti le professioni sanitarie” come in questi ultimi anni il legislatore ama chiamare i professionisti sanitari. Critico sia con la legge Balduzzi che con il ddl “Gelli”.
 
Quanto accaduto a Palermo non può però non fare riflettere sulla funzione della pena nei reati colposi. La durezza della pena, che è andata ben oltre alle richieste della pubblica accusa, impone una riflessione proprio sull’entità della pena stessa che si assume come “esemplare”. Una pena esemplare è una pena che rischia di essere profondamente anticostituzionale in quanto qui siamo ben oltre la riconosciuta necessità di una pena che abbia una funzione “generalpreventiva” e “retributiva” ma siamo, appunto, in presenza di una condanna-monito: deve essere di esempio a tutti.
 
La pena risulta quindi, nel caso di specie, sproporzionata rispetto ai fatti colposi commessi ma evidentemente proporzionata rispetto alla finalità generale che si vuole perseguire. Pena quindi che serve per una finalità generale e che eccede il caso specifico. Mi riferisco, è fondamentale precisarlo, ai fatti colposi, agli errori, all’imperizia, alla negligenza che hanno caratterizzato una buona parte degli eventi. Non mi riferisco ai comportamenti successivi di alcuni dei condannati che hanno nascosto l’errore alla paziente e ai suoi familiari, comportamento per cui nessuna scusa può essere accampata tanto è grave la situazione.
Anche le sanzioni accessorie dell’interdizione dall’esercizio della professione colpiscono profondamente: stiamo parlando di un numero di anni  che è stato stabilito da quattro a sette anni.
 
Queste sono pene che devono tendere alla rieducazione del condannato come stabilisce la Costituzione o siamo nella sproporzione assoluta rispetto agli autori del fatto-reato?

Vi è infine da domandarsi cosa sarebbe accaduto se fossero state in vigore le norme del ddl Gelli e se la vicenda processuale poteva finire diversamente. Probabilmente non sarebbe stato diverso in quanto il  ddl Gelli depenalizza la colpa grave solo quando siano state “rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali”.  E’ vero che all’epoca della commissione del fatto le “Raccomandazioni” (vista la finalità che hanno sono da considerarsi “ buone pratiche”) non erano state emanate ma tutta l’organizzazione posta in essere al Policlinico di Palermo non rispettava le “buone pratiche”:  unità di preparazione antiblastici non a norma, day hospital oncologico previsto solo con un medico strutturato (che ovviamente non poteva essere sempre presente), trascrizioni di terapie etc.

E’ l’esemplarità della pena il vero punto critico della sentenza di Palermo. Per i professionisti sanitari –rectius gli “esercenti le professioni sanitarie” – che lavorano in organizzazioni fortemente carenti da un punto di vista della sicurezza  delle cure vi è la certezza di rispondere personalmente degli “eventi avversi” avendo altrettanta certezza della non responsabilità da attribuire a chi ha il compito istituzionale di porre in essere una organizzazione del lavoro che disincentivi gli errori.
 
Luca Benci
Giurista

15 dicembre 2015
© Riproduzione riservata

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